L’uomo performante
dell’occidente: apologia di un nuovo umanesimo
Negli ultimi anni il mito del vincente è definitivamente tramontato. Ormai non ci crede più nessuno alle vite perfette fatte di invidiabili successi, di eterna soddisfazione, di entusiasmo instancabile. Tutti ammettono che la vita reale sia fatta anche di delusioni, di sconfitte e di errori. I sacrifici, anche se orientati ad una nobile causa, non portano automaticamente a cose belle. L’ abnegazione ruba tempo agli affetti, fagocita le altre passioni e può portare sofferenza.
Non è facile riconoscere quando l’ambizione stia diventando invece una fame bulimica, perché fermarsi in un contesto sempre in corsa richiede coraggio, contro il timore di rimanere fuori dei giochi. Purtroppo non esiste neppure una spia del troppo e in tanti hanno fatto i conti cosa significa esagerare. Il termine workalcoholic è diventato il preambolo a quello di breakdown e alla fine quelli che ne pagano le conseguenze sono anche le aziende.
Insomma non è più tempo dei campioni, ma piuttosto degli sfigati. Di quelli che ce la mettono tutta nelle piccole e grandi cose della vita: la famiglia, il lavoro, gli amici. Affrontano le loro sfide e spesso le perdono. Alcuni senza vergogna e con diritto si accontentano semplicemente di campare.
Persone normalissime, che ammettono di essere cadute, accettano anche di essere andate in mille pezzi, ma il loro eroismo consiste nel non nasconderlo e provare a riattaccare insieme i cocci.
Proprio come nell’antica arte giapponese del Kintsugi.